Quando la diagnosi arriva, non è solo un dato clinico: è l’inizio di un nuovo modo di vivere dentro un corpo che cambia, ma resta tuo.
Il mio medico era in vacanza. Il sostituto del sostituto — un tipo gentile ma un po’ troppo entusiasta delle analisi del sangue — decide di farmi fare un check-up completo. “Giusto per sicurezza”, dice. Spoiler: non era “solo sicurezza”.
I risultati arrivano: valori un po’ strani, qualche numero che non gli piace. Mi spedisce in ospedale. “Subito.” Esco dallo studio alle 11:00, arrivo in pronto soccorso alle 11:30. Da lì in poi, un crescendo di esami, aghi, liquidi di contrasto e quella frase che odio: “È l’ultimo test, poi puoi andare a casa.” Ne faranno ancora tre.
Passano ore. Mi sento come una falla in un sistema che nessuno riesce a debuggare: cercano “qualcosa”, il Santo Graal delle cellule pancreatiche, l’alfa e l’omega del sistema linfatico. Alla fine compare l’infermiera — ormai potrei offrirle un caffè, ci conosciamo da troppo — e mi dice che sta arrivando il medico. “Tranquilla.” Non era la parola giusta.
E il medico entra, mezzo sorriso, aria di chi sta per dirti qualcosa che non ha voglia di dire. Prima ancora di parlarmi, mi pianta un ago nella spalla. “Insulina,” dice. Poi: “Sei diabetica. Tipo 2.” E io penso: ok, non è una catastrofe. Mio nonno lo era. La mia mamma pure. Ho l’ereditarietà di famiglia. Mi spiega cose che non capisco, parla di glicemie, diete, penne, aghi, salviettine. Io annuisco come chi ha appena firmato un contratto in aramaico.
Sono le 21:21 quando esco dall’ospedale. Alla farmacia di turno sono gentili, troppo gentili. Mi riempiono di parole dolci e incoraggiamenti. Torno a casa con un manuale di sopravvivenza in formato PDF mentale. E mi impegno. Sul serio.
In sei mesi abbatto quasi tutta l’insulina, tengo la glicemia sotto controllo, mangio bene, faccio sport. Sono una macchina di compensazione perfetta. Arrivano i sensori Freestyle Libre3, che non suonano mai — tranne la volta che ho osato un risotto alle 21:00. Al ristorante sono un ninja del conteggio dei carboidrati, tranne quando insulto chi mi chiede se “diabete” è come “senza glutine”. Non lo è, ma lasciamo perdere.
Due anni dopo sono cintura nera di CHO. Sto bene. Sto attenta, ma sto bene.
Poi arriva il secondo giorno zero. Non so se un trauma emotivo possa scatenare qualcosa, ma due medici su due mi dicono che sì, può essere una concausa. O forse era solo il grilletto pronto da tempo. Fatto sta che un giorno le glicemie si impennano. Tutto fuori scala. Dieta perfetta, sport, Ozempic, niente funziona. Sembra che il corpo abbia cambiato linguaggio. Il Dexcom G7 (sostituto del Libre3, con una parentesi SIBIONICS) suona come una sveglia impazzita: ipo di notte, iper di giorno, caos. Frustrazione. Rabbia. Colpa. Tutto insieme.
Il diabetologo mi propone il test del C-peptide. Nome da formula di laboratorio o da incantesimo di Dungeons & Dragons, ma serve per capire se il mio pancreas produce ancora insulina. In pratica: il C-peptide è un piccolo frammento che il pancreas rilascia ogni volta che crea insulina. Misurandolo, si capisce se l’insulina che hai in circolo è “tua” (prodotta dal corpo) o “importata” (quella che ti inietti). Se i livelli sono bassi, vuol dire che il tuo corpo ha chiuso la fabbrica.
I risultati arrivano. E ribaltano tutto: non è tipo 2, è tipo 1. Autoimmune. Silenzioso. Mascherato per anni come un impostore.
Torna l’insulina — ma stavolta in due atti: lenta e rapida. Torna la paura di non capirci più nulla, e la fatica di ricominciare da capo. Il sensore suona, la glicemia balla, io cerco di starle dietro come un DJ di glucosio in pieno delirio.
È colpa mia? No. Ma, diciamolo, la genetica poteva impegnarsi di più: non sono simpatica, non sono gentile, non sono bella… almeno poteva risparmiarmi questo.
Quel giorno è stato come ricevere la diagnosi per la seconda volta. Tutto quello che avevo imparato, guadagnato, conquistato… di nuovo da zero. Solo che stavolta non era una punizione: era un reboot.
Ho dovuto reinstallarmi. Riascoltare il corpo, riconfigurare l’anima, riscrivere il codice. E sì — ricominciare. Fortunatamente, ricominciare.
Non sono fanatica di Ligabue, ma trovo che questa canzone sia il perfetto racconto di resilienza e memoria:
portarsi dietro le cicatrici come strumenti di navigazione. È esattamente il mood di chi si reinstalla e riparte.
"Hai messo via, non si sa mai… Ti servirà a non dimenticare."